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Inflazionato. Il termine disruption, che in italiano potremmo tradurre con disintermediazione o rottura, come accade ad ogni vocabolo quando viene utilizzato troppo ed impropriamente, sta cominciando a perdere significato. Disruption digitale, disruption finanziaria e, soprattutto, disruption del FinTech.
L’evoluzione del FinTech, qualcosa è cambiato
Come riportato dal World FinTech Report 2017, redatto da Capgemini, LinkedIn e Efma, i servizi offerti dalle società FinTech stanno riscuotendo un importante interesse da parte di utenti tecnologicamente avanzati e con elevate capacità di spesa. In particolare vale la pena sottolineare che, mentre inizialmente i grandi istituti finanziari non percepivano l’avvento del FinTech come una possibile minaccia, ora qualcosa è cambiato. Il 60% delle istituzioni sta infatti cominciando a considerare collaborazioni con realtà FinTech già esistenti e il 59,2% si sta invece attivando per sviluppare internamente le abilità al momento mancanti.
Il movimento del FinTech, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, vede finanza e tecnologia insieme e nasce per sopperire a diversi bisogni, più o meno espressi, di chi si interfaccia con le istituzioni finanziarie. Nello specifico, la società si modifica e, con essa, le necessità e richieste degli individui che, però, non vengono soddisfatte dagli attori tradizionali. Qui nasce il FinTech che risponde ai bisogni di velocità, trasparenza, facilità e democratizzazione.
Oggi è diventato automatico, quando si parla di FinTech, associare ad esso il termine disruption, facendo riferimento alla rottura che si sta creando tra il passato e il futuro della fruizione di servizi finanziari. Ma è davvero corretto fare di tutta l’erba un fascio?
Tutte le FinTech sono disruptive? Forse no
Un’interessante dibattito tra due professori della Harvard Business School, Michael Porter e Clayton Christensen ha portato alla luce una riflessione molto importante: quando, in riferimento ad una società FinTech, è corretto parlare di disruption e quando bisognerebbe invece parlare di innovazione?
Quello che emerge dalle considerazioni portate avanti a seguito del dibattito è che, se pensiamo alle numerose società FinTech che nascono sotto forma di ramo di realtà finanziarie già esistenti, come le banche ad esempio, parliamo di innovazione. Questo perché quello che accade, infatti, è che le aziende già attive trovano sostanzialmente diversi modi di offrire nuove esperienze utente ai propri clienti innovando i loro servizi e aggiornandoli ponendo l’attenzione verso nuove tecnologie e trend di mercato.
Disruptive innovation, l’attenzione è al processo
Facendo riferimento alla definizione di disruptive innovation coniata da Clayton Christensen, il termine disruption, si riferisce, invece, al movimento compiuto da una realtà di piccole dimensioni e con risorse limitate, che riesce a sfidare con successo le grandi realtà già esistenti. In che modo? Le aziende già insediate preferiscono riferirsi a clienti maggiormente remunerativi a discapito di altri e, un’impresa disruptive, si distingue da queste proprio perché comincia a guardare a quei segmenti di clientela trascurati e non serviti, offrendo servizi di qualità ma di più facile utilizzo, trasparenti e meno costosi. Riferendosi quindi a due target diversi, le grandi realtà non vedranno necessario rispondere a questa nuova offerta e lasceranno i nuovi attori agire indisturbati. Saranno quindi i “nuovi arrivati”, in un secondo momento, ad ampliare la loro offerta espandendosi anche verso quel mercato più alto, già servito, ma preservando i vantaggi e le caratteristiche di facilità, trasparenza e bassi costi. In questo modo il servizio, più vantaggioso in termini di dare e avere quindi sia dal punto di vista economico che di funzionalità offerte, sarà scelto dalla maggior parte dei clienti, che lo preferiranno a quello proposto sino a quel momento dagli attori già esistenti, portando così alla vera disruption.
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